REFERENDUM GIUSTIZIA

Avvocati che controllano giudici, condannati liberi di ascendere a cariche legislative e di governo, criminali senza manette, norma “anti- correntismo” che non serve a un bel niente

IL PAPOCCHIO

UN QUESITO INUTILE E QUATTRO DANNOSI

DI PIERCAMILLO DAVIGO
Piercamillo Davigo – ex magistrato

Il prossimo 12 giugno si voterà per i referendum in tema di Giustizia. Erano originariamente sei, ma la Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile quello sulla responsabilità diretta dei magistrati (come avevo previsto in un articolo pubblicato su questo giornale il 7 luglio 2021). Ne sono rimasti cinque: uno inutile e quattro dannosi.

 Cominciamo da quello inutile.

Nelle intenzioni dei promotori, lo scopo del quesito referendario sarebbe quello di indebolire le correnti eliminando l’obbligo di raccogliere almeno 25 firme per presentare le candidature di magistrati per le elezioni del Consiglio Superiore della Magistratura. Come avevo scritto, sempre su questo giornale, il 30 giugno 2021, il quesito presuppone una sorprendente ingenuità. Con l’attuale sistema elettorale per eleggere un candidato ci vogliono, a seconda della categoria di appartenenza, almeno 500 voti per eleggere un giudice, circa 1.000 per eleggere un magistrato del pubblico ministero e quasi 2.000 per eleggere un magistrato di legittimità su un corpo elettorale di meno di diecimila elettori. Mentre per raccogliere così tanti voti ci vogliono i gruppi organizzati (cioè le correnti), per raccogliere 25 firme di presentazione della candidatura basta andare qualche volta al bar. Quindi i promotori o sono ingenui o spacciano quale rimedio al correntismo una medicina inutile, come una volta gli imbonitori di fiera.

Gli altri quattro sono invece dannosi.

 A me appare anche disgustoso quello che vuole abolire il decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 il quale prevede l’incandidabilità al Parlamento nazionale e al Parlamento europeo (per i componenti spettanti all’Italia), nonché l’impossibilità di assumere incarichi nel governo nazionale per quattro categorie di condannati: coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a 2 anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati di particolare gravità (fra i quali ci sono reati di associazione mafiosa, riduzione in schiavitù, terrorismo e altre bazzecole del genere); coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a 2 anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati contro la Pubblica amministrazione come la concussione, corruzione, peculato ecc.; coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a 2 anni di reclusione, per delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 4 anni (peraltro quelli puniti con pena non inferiore a 5 anni di reclusione o all’ergastolo già comportano l’interdizione perpetua dai pubblici uffici che già rende incandidabili). Lo stesso decreto legislativo prevede l’incandidabilità a livello regionale e locale per i soggetti che hanno riportato condanne definitive per similari reati o siano stati sottoposti a misura di prevenzione. Come avevo scritto su questo giornale il 26 giugno 2021, ero convinto (ma sbagliavo) che simili norme fossero superflue perché ci si sarebbe dovuti attendere che, in un Paese civile, i partiti non candidassero siffatti soggetti, senza bisogno che una norma di legge lo vietasse. Nessuno, con simili precedenti penali, potrebbe infatti accedere a concorsi pubblici per impieghi civili o militari e quindi non si comprende perché invece dovrebbe essere consentito accedere ai vertici del potere legislativo o esecutivo. Evidentemente i promotori del referendum prediligono invece che importanti cariche pubbliche possano essere ricoperte da simili soggetti.

Vi è da chiedersi che idea abbiano delle istituzioni.

Un altro quesito è incauto.

Si tratta di quello che vorrebbe abolire la norma che prevede la non partecipazione dei componenti avvocati e professori universitari dei Consigli giudiziari alle deliberazioni riguardanti lo status dei magistrati ordinari. Non c’è problema per i professori (salvo che siano anche avvocati, come spesso accade), ma c’è per gli avvocati. Come avevo già scritto su questo quotidiano il 3 luglio 2021, non si può fare il parallelo con i componenti “laici” del Csm perché costoro non possono svolgere la professione di avvocato finché sono in carica, mentre quelli dei Consigli giudiziari sì, e quindi continuano a svolgere tale professione. Il Csm poi è organo nazionale, perciò lontano dalle realtà locali, mentre i Consigli giudiziari si occupano di un numero relativamente ristretto di magistrati. Ciò può comportare, specie nei distretti di piccole o medie dimensioni, che l’avvocato si trovi a dover valutare il giudice che decide anche le cause da lui patrocinate. Anche se la deontologia degli avvocati dovrebbe indurli ad astenersi, in questo Paese dove l’abitudine a cercare raccomandazioni o vie traverse è largamente diffusa, temo che gli avvocati nominati nei Consigli giudiziari vedranno crescere di molto la loro clientela, in quanto i clienti si immagineranno che quell’avvocato, da loro scelto in quanto componente del Consiglio giudiziario, sia in grado di fare pressioni o comunque intimorire il giudice che deve decidere la causa. L’abrogazione della norma sembra rischiosa, oltre che per l’immagine della giustizia, anche per i rapporti degli avvocati fra di loro. Il quesito sulla separazione delle carriere fra pubblico ministero e giudice, ove approvato otterrebbe l’effetto contrario a quello che la raccomandazione n. 19/2000 del Consiglio d’Europa prevede. A tacere di ciò che avevo scritto qui il 16 luglio 2021, a mio parere la miglior garanzia per i cittadini è che il magistrato del pubblico ministero ragioni come un giudice. Allontanarlo da una comune cultura non aumenta la tutela dei diritti ma la diminuisce.

Il più inquietante è il quesito sulla custodia cautelare, di cui avevo scritto, sempre su questa testata, il 23 giugno 2021.

Con tale quesito si vuole abolire la possibilità di disporre la custodia cautelare in ipotesi di pericolo di reiterazione di reati della stessa specie di quello per cui si procede. Premesso che, per disporre la custodia cautelare, occorre la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza per reati di una certa gravità nonché l’esistenza di esigenze cautelari quali pericolo di inquinamento delle prove, pericolo di fuga o pericolo di reiterazione di reati con violenza o della stessa specie di quello per cui si procede, l’ultima ipotesi è quella più frequente. Stupisce che una forza politica come la Lega, che aveva fatto della sicurezza un suo programma, si proponga di creare effetti stravaganti: se qualcuno vi svaligia l’appartamento e viene scoperto l’arresto in flagranza è obbligatorio da parte delle forze dell’ordine, ma poi dovrà essere subito rilasciato perché non è consentita la custodia cautelare. Dopo il mio articolo, Salvini aveva dichiarato che io non avevo letto il quesito. Forse non l’ha letto bene lui, tanto che, per le ragioni che ho appena esposto, Fratelli d’Italia non lo ha seguito su questa strada.

 Staremo a vedere ciò che accadrà, ma più volte gli elettori hanno dimostrato più saggezza dei proponenti.

Dal “Il Fatto Quotidiano”
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